How to feel little: view from Selberg Cliffs (facing south-east). Silence and just the low and far away roar of the waves below. feeling little or absolutely nothing indeed, not just small.

Un giorno il mio amico Lorenzo (soggetto e scala di molte delle fotografie che vedrete in seguito) mi propone una cosa quantomeno bizzarra: organizzare un viaggio alle Isole Faroe.
E io che faccio? Ovviamente accetto
Optiamo per febbraio poiché, pur ritrovandoci a sacrificare attrazioni disponibili solo nei mesi estivi, vogliamo evitare l'immenso afflusso di turisti dell'alta stagione. Una delle priorità del viaggio è assaporare luoghi immensi e solitari, lontano dalla gente, lontano da tutto. Prenotiamo quindi al volo l'aereo e le guest house in cui alloggeremo: una settimana abbondante e un itinerario che poggia solamente sui punti di sosta. 
Quasi nessuna costrizione e nessun sentiero preimpostato.
Il modo migliore per viaggiare.
Attendiamo nel terminal. Siamo due persone con quattro zaini, due macchine fotografiche, scarponi macchiati di fango secco, cartine di un arcipelago remoto in mano (le cartine stampate hanno fascino) e poche ore di sonno.
Probabilmente anche un certo prurito nello stomaco.
Arriviamo a Copenhagen in tarda mattinata e saliamo su un volo SAS che con nonchalance mostra due parole su uno schermo illuminato: Faroe Islands.
Le isole emergono dall'oceano come monumenti bizzarri ad una attività vulcanica ormai cessata da diversi anni. Sono una specie di manifesto dell'architettura naturale di questa parte del mondo, un Gotico Islandese Effusivo si potrebbe quasi definire, magari anche con tracce di un poco di Neoclassicismo Vulcanico nelle colate basaltiche inferiori. 
Mi viene da domandarmi come abbiano fatto a costruire una pista di atterraggio su questi scogli neri. Mi risponde la visione di un grosso terrapieno ricoperto ai lati da lanugginose macchie bianche e nere. Non ho ancora messo piede a terra e già ho capito chi sono i principali abitanti di questo luogo.
In questa stagione l'erba non è molto verde, ma SA di verde. Nelle foto di questa raccolta quindi i colori saranno modificati a rispecchiare non solo il paesaggio in una stagione più estiva, ma a rispecchiare quello che il paesaggio stesso a me HA COMUNICATO, o come il paesaggio mi è sembrato attraverso un occhio che non vede solo luce.
Atterriamo nel piccolo aeroporto. L'aria è umida e fresca e le luci all'interno della struttura sono calde. Si intravedono le coloratissime merci dei duty free ma i nostri occhi vagano oltre la struttura, lungo le sinuose linee delle montagne (o colline, che dir si voglia). Non ricordo la strada percorsa, o il fatto che siamo passati attraverso delle effettive porte per entrare e uscire dall'aeroporto. Non ricordo nemmeno di aver preso i miei bagagli, di essere sceso dalle scale dell'aereo.
Ricordo solo una lieve pioggerella, il profumo grigio dell'oceano, l'aria di vetro e la sensazione di essere lontani. 
Non che siano troppo remoti questi territori, sia chiaro, ma lo sono di natura; la lontananza scorre nel terreno, tra i fili d'erba, nelle sparute e colorate abitazioni, negli occhi degli abitanti.

Raggiungiamo la prima guest house con un poco di anticipo. La donna che la gestisce ci accoglie calorosamente. La casetta in cui staremo per questa notte é un grazioso appartamento al piano terra di una casa di legno e ha una bellissima vista sulla città di Sorvagur e sul fiordo lungo cui si sviluppano il porto e i conservifici.
Usciamo per fare un giro e recuperare del cibo che già si è fatto buio, così ne approfittiamo per raccogliere qualche scatto notturno della città stessa. Vogliamo camminare, esplorare la zona, prudono i piedi.
Torniamo alla base e dopo aver cenato, non siamo stanchi e il solo fatto di essere in un luogo così distante ci riempie di energie; andiamo a dormire presto solo per rendere l'attesa del giorno più breve.
Al risveglio il paesaggio si apre in tinte d'oro oltre le finestre della casetta: un cielo azzurro e un'aria di cristallo ci sorprendono con un tepore che non avremmo mai pensato di trovare in questa parte dell'Atlantico.
Puliamo il caos della sera prima, riordiniamo le nostre cose e ci spostiamo a piedi verso la seconda guest house della settimana per lasciare i nostri bagagli e alleggerirci. Il piano per la giornata è esplorare a piedi la verticale linea di costa a sud dell'isola di Sorvagur. Non abbiamo cartine o sentieri prefissati ma la natura di questo paesaggio permette di muoversi semplicemente in ogni direzione facendo i conti solo con i territori dei pastori.
Il nostro guest, che si chiama Limberg, non è in casa ma ci comunica una combinazione per accedere al nostro alloggio (una comoda roulotte nel suo vialetto di accesso). Lasciamo gli zaini con i vestiti e usciamo di corsa, non vogliamo perdere nemmeno una piccola goccia di questo sole frizzante e caduco.
Da qui lascerò parlare le migliori immagini di una delle giornate più belle che io abbia mai vissuto.
Un temporale ci coglie di sorpresa poco prima di giungere al celebre punto panoramico (una delle numerose Mecca per fotografi del luogo) di Drangarnir. La pioggia rende il terreno ancora più difficile da navigare e l'erba bagnata rende i declivi sdrucciolevoli, decidiamo quindi di abbandonare le perigliose verticali della costa meridionale e tornare alla roulotte. Il sole inizia a svanire rapidamente dietro una fitta coperta di nubi rivelando le morbide ombre del paesaggio aspro.
Seguiamo l'altra costa.
La discesa dalle montagne risulta più faticosa del previsto e la pioggia in aumento non facilita i movimenti sui declivi erbosi. Non v'è sentiero tracciato evidente che ci riconduca alla civiltà e i nostri movimenti lungo le pendenze dei fiordi sono dettate unicamente dal nostro istinto. A tratti dei fitti lembi nebbiosi ci impediscono di vedere il tragitto di fronte e la distanza dalla costa non pare diminuire.
In una situazione del genere è facile cadere nel panico e temere il peggio; del resto siamo letteralmente persi su un declivio roccioso su un gruppo di isole disperso nel nord Atlantico durante una tempesta in aumento a diversi km dalla civiltà, non è di certo la situazione più comoda. Il paesaggio attorno a noi però, pur essendo ispido, bagnato, aspro e all'apparenza poco accogliente, ci rincuora e ci godiamo ogni fradicio passo nel fango e ogni scivolone sull'erba. Siamo felici e cantiamo, ridiamo marciando verso il fondo del fiordo.
Il sole si tuffa rapidamente nell'oceano e l'unica luce ad accompagnarci lungo il sentiero di ritorno è quella delle nostre frontali. La pioggia si è calmata e con essa i nostri animi, la stanchezza inizia a farsi sentire. Rientriamo a sera inoltrata tra le luci di Sorvagur e passiamo accanto a dei conservifici semivuoti dove incontriamo dei pescatori che ci salutano gentilmente. Siamo chiaramente in un territorio in cui non dovremmo essere ma nessuno ci dice nulla e questo ci sorprende non poco, fossimo in Italia ci avrebbero già come minimo fermati chiedendo spiegazioni. Ritiriamo subito l'auto dal noleggio e stanchi e affamati ci rintaniamo, sotto una pioggerella fresca, nel camper di Limberg per preparare la cena.
Dopo cena sentiamo bussare alla porta: vestito da zombie vediamo Limberg stesso che, dopo averci ufficialmente dato il benvenuto, ci invita a bere qualcosa con i suoi amici a una festa in maschera che si sta tenendo proprio in casa sua. A quanto pare abbiamo deciso di fare questo viaggio proprio in corrispondenza del Fastelavn, una specie di carnevale diffuso in nord Europa.
Facciamo subito la conoscenza di diversi abitanti del luogo e tra una birra e l'altra finiamo con il trovarci nel centro sociale del paese dove conosciamo ancora altra gente. Brindiamo quindi con Kenneth, Limberg, Louisa, Joannes e altri amici fino a notte tarda quando rientriamo a casa di Limberg. Prima di andare a letto i nostri ospiti ci portano un piccolo cesto ricolmo di uova di quaglia e un formaggio tipico da usare a colazione, un gesto molto bello che riconferma la gentilezza di questi isolani. 
Ringraziamo e ci ritiriamo nei nostri alloggi stanchi e un poco sbronzi.
Siamo contenti.
Rinveniamo nel tepore di una roulotte illuminata da un pallido sole nordico e c'è un silenzio alienante. Puliamo i piatti rimasti sul tavolo dalla cena della sera prima e prepariamo un'ottima frittata fatta con le freschissime uova di quaglia regalateci da Limberg e Louisa. Beviamo uno slavato caffè solubile (lo stereotipo del caffè regge anche qua, la moka la abbiamo solo in Italia) e carichiamo le nostre cose nel bagagliaio dell'auto a noleggio.
Salutati i nostri ospiti partiamo con direzione Gasadalur, casa della celeberrima Mulafossur, la scenografica cascata più celebre delle intere Isole Faroe. É effettivamente una giornata stupenda e raccogliamo qualche scatto anche di questa location da sogno, è strano vedere di persona un posto visto così tante volte in fotografia.
Il minuscolo paesino di Gasadalur si affaccia sulla vicina isola di Mykines, celebre per la grande comunità di Puffins (pulcinelle di mare) che ogni estate attira un nutrito gruppo di fotografi sulle sue sponde. Noi fortunatamente siamo fuori stagione e pertanto possiamo goderci lo spettacolo delle isole con calma e senza folle raggruppate attorno a punti di interesse come, appunto, Mulafossur. Cerchiamo scatti diversi da quelli canonici anche se è comprensibile il perché alcuni lo siano.
Bazzichiamo un poco nella zona discendendo periodicamente e pericolosamente sui gradoni lavici sottostanti. Dopo pranzo decidiamo di partire alla volta della capitale Toshavn, tappa intermedia tra noi e l'alloggio per la nottata, per bere una birra e cenare poiché all'alloggio non avremo la cucina. Lungo il tragitto ci fermiamo molte volte per ammirare il paesaggio e scattare fotografie degli scori migliori.
Segnata sulle nostre mappe di Google c'è una location estrapolata da immagini satellitari e questa si trova sul fondo di una deviazione a metà strada tra Sorvagur e Torshavn. É una valle sospesa esposta a ovest e, a giudicare dalle immagini sarebbe il luogo perfetto per carpire le calde luci della golden hour. Fitte nubi coprono però il cielo e, fino al bivio con la deviazione, rimaniamo indecisi sul da farsi. 
Al bivio decidiamo di tentarla nonostante la copertura nuvolosa e la fitta nebbia, l'unica alternativa sarebbe quella di andare a fotografare le pale eoliche vicino a Torshavn ma confidiamo nel fatto che, se anche solo le nubi si aprissero un poco, potremmo ottenere degli scatti meravigliosi.
Saliamo una serie di tornanti in una nebbia fittissima e, giunti ad uno spiazzo in cima alla valle, lasciamo l'auto per poi incamminarci lungo i declivi rocciosi in una luce grigia e una visibilità pessima.
Pochi minuti dopo, nel giro di poche manciate di secondi, le nubi si spalancano letteralmente di fronte ai nostri occhi rivelando un paesaggio sublime. Orlati in tinte dorate i torrioni lavici per metà immersi nelle nuvole si rivelano al nostro sguardo e i declivi umidi conducono il nostro sguardo verso i fiordi sottostanti. 
Paralizzati dalla meraviglia che si dipana di fronte a noi scattiamo poche fotografie e guardiamo tante cose.
Assaporiamo il momento in silenzio.
Ad oggi penso che sia uno dei paesaggi più incredibili che io abbia mai ammirato ma non nel senso fotografico del termine, no. A livello fotografico, la valle non ha nulla a che vedere con quelle meraviglie di Mulafossur o Drangarnir, ha però una componente molto più selvaggia, intatta, quasi abbandonata in un angolo di pianeta.
Dopo cena decidiamo di non dilungarci troppo nell'esplorazione delle strade di Torshavn (abbastanza vuote stasera) e partire alla volta di Selatrað dove, protetto da un lucchetto, ci attende il nostro giaciglio per la nottata; e noi abbiamo il codice per aprirlo. Prima di abbandonare le luci della città facciamo un salto in un supermercato per prendere del tè e qualche porcheria mangereccia. La base per la nottata sarà un vecchio affumicatoio convertito in bungalow posto direttamente sul fiordo che separa Streymoy e Eysturoy.
Le frequenze radio che prende l'auto sono veramente pochissime e sull'unica radio non tradizionale mandano di continuo un brano di Lou Bega. Finiamo con il saperlo a memoria e cantarlo anche nel silenzio dei fiordi.
Arriviamo in tarda serata in una Selatrað avvolta da una fitta nebbia che profuma di inverno e oceano e ci rintaniamo subito nella casina scaldandoci con la stufa elettrica. Dopo numerose tazze di tè, bevute tra un discorso e l'altro, decidiamo di rintanarci nei sacchi a pelo e riposare un poco.
Ci svegliamo in una mattina nuvolosa che profuma di neve ma decidiamo ugualmente di spostarci a nord verso l'iconica Gjògv che purtroppo si trova oltre un valico montano abbastanza periglioso. Scattata qualche fotografia attorno alla chiesa di Selatrað, partiamo alla volta della summenzionata località, fermandoci periodicamente a scattare fotografie del paesaggio incredibile che ci circonda.
Arriviamo a Gjògv che è quasi ora di pranzo e decidiamo di fermarci nell'unico posto aperto in cui poter ordinare del cibo. Spendiamo più di quanto avremmo voluto. Confidavamo nella presenza di almeno una piccola bottega aperta per comprare del cibo spazzatura, ma ne approfittiamo comunque per assaggiare degli ottimi piatti tipici.
In questo periodo dell'anno le isole sono praticamente deserte e questo ci permette di godere degli spazi e delle mete più turistiche nella loro forma naturale e tipica tranquillità. É stupendo vedere la vera natura dispersa di posti come questo, sentire il loro vero suono fatto di silenzio e dialetti locali, sentieri un poco incolti, esercizi commerciali chiusi, parcheggi liberi e la mancanza di folle di fotografi nei posti più caratteristici.
Mentre gironzoliamo per le vie del paese e attorno alla celebre frattura nella costa, notiamo un consistente velo bianco coprire le cime dei monti accompagnato da un forte odore di neve. Lo scenario cambia di nuovo e ora porta con sé ancora più lontananza, ancora più silenzio e austera maestosità. 
La località che stiamo esplorando non è molto grande ma ci ritroviamo continuamente persi con lo sguardo nel paesaggio, in silenzio, fermi. Così passa quindi il pomeriggio sotto i nostri occhi attoniti.
Ad un certo punto, vedendo un inesorabile e velocissimo calo di tempi di esposizione sulle nostre macchine fotografiche, decidiamo che è ora di partire alla volta di un supermercato e del nostro alloggio a Norðragøta.
Il ritorno è più nevoso di quanto non ci saremmo immaginati ma il paesaggio è a dir poco incredibile.
Ritorniamo alla civiltà sani e salvi, facciamo un po' di spesa e ci rechiamo alla stanza in affitto in cui staremo per le prossime due notti. Ci diamo una rinfrescata a turno mentre cuciniamo e, dopo un lauto pasto ed aver perso diversi minuti su una grossa cartina delle isole, ci corichiamo in attesa della mattinata.
Una timida alba ci sveglia richiamandoci ad una bellissima realtà.
Oggi puntiamo a Kalsoy, isola tra le isole, raggiungibile solo prendendo un traghetto da Klaksvik. Si tratta di un lembo di terra allungato popolato da meno di 30 anime e almeno il triplo di pecore (sempre che le pecore non abbiano a loro volta un'anima, a quel punto sarebbero 120) indentato tra Kunoy e Eysturoy. 
Partiamo quindi alla volta di Klaksvik per vedere gli orari e le disponibilità del traghetto.
Il porto di Klaksvik è stupendo e le case lo circondano inerpicandosi sul fiordo protetto in cui la città riposa. Tutto pare tranquillo e accogliente qui, i pescherecci ondeggiano piano e nell'aria di cristallo che sa di neve e oceano c'è profumo di pesce, nafta e salmastro. 
Gli orari del traghetto, ridotti per la bassa stagione, ci regalano diverse ore di attesa; decidiamo così di dirigerci a ancora a nord, verso Viðareiði. Cerchiamo la nostra più bassa latitudine tra i monti che sovrastano quella cittadina e puntiamo a pestare il suolo più a nord di tutte le isole.
Lungo la strada, tra tunnel strettissimi e lingue di terra apparentemente dimenticata, fermandoci spesso a scattare fotografie, cadiamo in un silenzio strano. Non parliamo per diversi minuti, la radio non prende e il cellulare nemmeno. Altro non facciamo che goderci la strada e l'atmosfera surreale di questi luoghi.
Viðareiði sa di lontananza più di tutti i luoghi che abbiamo visto fino a questo punto nel viaggio. É una cittadina accolta tra due ampie braccia montuose, poggiata su soffici declivi, protetta ma allo stesso tempo esposta. Sa di tramonti bluastri di dicembre, di erba ispida in ciuffi incolti, roccia nera scavata da rivoli ghiacciati; sa anche di maglioni di lana, tisane alla menta e legno grigio in case tiepide. Sa di persone silenziose degli occhi grigi, sguardi accoglienti e mani callose, scarponi infangati, pesce e vento, tantissimo vento. Sa anche un po' di cemento, ma questo lo racconterò da qualche altra parte.
Me lo porto dentro come un luogo sicuro per me, un luogo in cui scappare quando tutto crolla.
Un luogo per cui tenere da parte sempre un esiguo gruzzoletto, sufficiente a portarmi lì. 
Per più di un'ora vaghiamo tra i prati a nord del paese, soprattutto sulla scogliera esposta a est, quella che si affaccia verso la lontana e disabitata Fugloy. Non pensavo si potesse essere così attratti da un paesaggio.
A malincuore ma spinti dalla curiosità abbandoniamo il posto magico in cui abbiamo passato così tanto tempo e, tornati all'auto, iniziamo a guidare verso il porto di Klaksvik, dove ci attende il traghetto.
Arriviamo appena in tempo e ci imbarchiamo con un altro veicolo e una persona in bicicletta. Continuo a pensare che abbiamo scelto il periodo migliore per fare questo viaggio.
Il breve tratto di mare tra Klaksvik e Kalsoy offre delle viste incredibili sul lungo corridoio del fiordo.
Attracchiamo, scendiamo e partiamo alla volta di Trøllanes.
Kalsoy è un'isola silenziosissima, ancor più quieta di quelle in cui siamo stati.
La percorriamo lungo la sua unica strada fermandoci periodicamente a causa delle molte pecore sulla carreggiata. Il piano è arrivare alla località più a nord e poi scendere verso Mikladalur, dove porgeremo i nostri ossequi alla celeberrima statua di Selkie.
Così come l'isola stessa starò in silenzio, non dirò molto altro, lascerò parlare le fotografie.
Rientriamo al tramonto con gli occhi pieni di bellezza e, dopo una cena frugale, ci corichiamo con la volontà di vederne altra il prima possibile, poco dopo l'alba che si sta avvicinando poco oltre l'orizzonte.
Ci svegliamo presto per sistemare la casa e raccogliere tutte le nostre cose. Oggi puntiamo a vedere il piccolo villaggio di Saksun e poi tornare a Sorvagur dove saremo, per la nostra ultima notte sulle isole, ospiti in casa di Poul, un pescatore che ci ha affittato una stanza in casa sua. La sera stessa dovremo poi riconsegnare l'auto e organizzarci per il volo che prenderemo in mattinata, sarà traumatico dover tornare alla vita di sempre. 
La colonna sonora della giornata, dettata dalla radio è Sweat (A La La La La Long) che viene messa compulsivamente dal DJ durante tutta la giornata. Finiamo con il sapere a memoria anche questa.
Saksun si trova a nord dell'isola di Streymoy, sul fondo di una lunga valle glaciale. Si tratta di un minuscolo insediamento di pescatori, fondato in una zona naturalmente protetta e paesaggisticamente mozzafiato caratterizzata da un'ampia piana tidale che due volte al giorno viene invasa dall'oceano.
Giunti all'unico parcheggio del luogo, ampliato di recente per accogliere il consistente afflusso di turisti, lasciamo l'auto e cominciamo a vagare per la zona nel tentativo di scendere verso la laguna che si sta poco a poco svuotando dalle acque tidali.
Raggiungiamo la piana giusto in tempo per poterla attraversare senza grossi problemi. Le dune nella sabbia rispecchiano alla perfezione i moti delle correnti a cui questa zona è soggetta, pare un esempio uscito direttamente da un libro di sedimentologia. Nell'ampio fondale di sabbia nera si notano solo le fresche tracce di pneumatici dell'auto di un pastore e le impronte delle sue pecore che ora passeggiano insieme a noi sulla piana.
Ci dirigiamo quindi verso l'imbocco da cui la marea entra in questa laguna e, seguendone lo stretto corridoio per qualche centinaia di metri, sbuchiamo su una spiaggia stupenda fatta di sabbia nera e riflessi bianchi. La spiaggia è intonsa e non v'è alcuna traccia di presenza umana, lasciando spazio alla naturale differenziazione dei granuli di sabbia, è bellissimo. Passiamo qualche manciata di minuti scattando fotografie in questo idillio, fatico ad accettare che domani saremo su un aereo per tornare a casa.
Sulla strada del ritorno ci fermiamo ad una pescheria per prendere finalmente un grosso pezzo di salmone faroese. Guardando gli orologi decidiamo anche di cogliere gli ultimi raggi di sole visitando la celebre Trælanípa, scogliera che separa l'oceano dal grosso lago Leitisvatn. É una delle location più celebri delle isole Faroe, paragonabile ai prima citati Drangarnir e Mulafossur.
Il tramonto ha un sapore agrodolce ma lo spettacolo della costa in tinte di fuoco ci incanta fino allo spuntare delle prime stelle. Temporeggiamo in questo luogo magnifico fino ad essere quasi in ritardo per la consegna dell'auto, non vogliamo lasciarcelo alle spalle.
Rientriamo a Sorvagur e dopo aver fatto il pieno all'auto andiamo verso la casa in cui alloggeremo per lasciare i nostri zaini. Poul non è in casa ma, dopo averlo contattato ci dice che la porta è aperta e di entrare e fare come se fossimo a casa nostra, pazzesca la fiducia che quest'uomo ha nei confronti dei suoi ospiti e della completa assenza di criminalità di Sorvagur. Siamo allibiti, non ci fideremmo mai a lasciare le porte delle nostre case aperte, a completa disposizione di chiunque lo sappia.
Casa di Poul è piccola ma accogliente e la nostra stanza ben tenuta. Lasciamo i nostri bagagli e ci dirigiamo verso l'incontro con il proprietario dell'auto che ci dice di lasciarla parcheggiata di fronte a casa sua con le chiavi inserite nel quadro, anche questa cosa ci risulta pazzesca. Ci interroghiamo sul numero di crimini commessi in queste isole negli ultimi mesi, probabilmente meno di zero.
Lasciata l'auto torniamo a piedi verso il nostro alloggio dove Poul ci accoglie con una laconica gentilezza tipica di queste persone del nord. Ci mettiamo subito ai fornelli e cuciniamo il nostro bel filetto gigante di salmone faroese mentre il nostro ospite guarda Interstellar in soggiorno (il mio film preferito). Gli offriamo di cenare con noi ma lui rifiuta gentilmente poiché sta seguendo una dieta particolare, peccato.
Dopo cena decidiamo di uscire a fotografare le stelle e sfruttare al meglio queste ultime ore sulle isole e l'unica nottata limpida della settimana, un bellissimo ultimo regalo dell'Atlantico. Prima di uscire auguriamo la buonanotte a Poul e lo ringraziamo per la sua ospitalità, domattina uscirà prima dell'alba per andare al lavoro quindi non avremo occasione di farlo al nostro risveglio.
La nottata è leggermente nebbiosa ma le stelle penetrano la foschia con una luce pungente. Purtroppo le vicine luci dell'aeroporto e della città non ci permettono degli scatti perfetti di questo cielo incredibile. Nonostante ciò ci perdiamo nelle ombre dei declivi per diverse ore finché la temperatura, calata molto sotto lo zero, ci spinge a rintanarci in casa. In una delle foto che riesco a scattare noto, verso nord, un lontano alone verdastro che tutt'oggi sono convinto potesse essere una lontana aurora. Così vicina ma ancora lontana.
Ritornando tra le luci della quieta città, guardando in alcune finestre illuminate, riusciamo a scorgere le routine notturne di alcuni abitanti: c'è chi legge, c'è chi gioca a videogames e chi semplicemente si addormenta piano di fronte ad un film. Nulla che non accada ovunque nel mondo, ma vedere di sfuggita queste scene domestiche attraverso l'aria di cristallo di una notte in un arcipelago remoto ha tutt'altro significato.   
Al nostro risveglio, a malincuore, prepariamo gli zaini e ci dirigiamo verso l'aeroporto a piedi.
Nella lobby beviamo qualche birra di troppo mentre attendiamo il volo che ci porterà a Copenhagen.
Nel volo di ritorno siamo un po' sbronzi ma va bene così, i nostri occhi sono pieni di meraviglia e salutiamo le isole dall'oblò dell'aeroplano mentre spariscono sotto uno spesso manto di nubi. 
Il testo in questa pagina è stato scritto a fine 2022. Da quei giorni molto è cambiato e il mondo pare non essere più lo stesso, per tutta una serie di motivazioni che tutti conosciamo e che non voglio snocciolare in calce a questo reportage. Io stesso sono cambiato, le mie fotografie sono (spero) migliori, la mia attrezzatura anche e le mie capacità di editing sono state affinate. Per quanto ogni immagine in questa raccolta mi riporti indietro con la mente a quei giorni, non posso non notare errori di composizione o povera gestione della luce e del colore. Questo è uno dei motivi per cui, spero tra non molto, punto a tornare alle isole e documentarne al meglio il paesaggio e anche il lato più umano, le tradizioni, per quanto mi possa permettere di fare.
Molto è cambiato, sì, ma non è cambiato il richiamo di quel luogo.

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